Dalle Nazioni Unite al Papa passando per le organizzazioni sul campo come Medici senza frontiere, da più parti si invoca una pausa alle ostilità sulla Striscia di Gaza e l’apertura di corridoi umanitari per la popolazione, circa 2,2 milioni di persone strette in un fazzoletto di terra di appena 365 chilometri quadrati martellato da quasi venti giorni dai raid israeliani. In circostanze simili – dai Balcani all’Ucraina passando per la Siria – sono stati approntati passaggi sicuri che hanno consentito ai civili di mettersi al riparo e agli aiuti umanitari di raggiungere chi ne aveva bisogno.
Dal 7 ottobre, giorno dell’assalto di Hamas contro Israele, nell’enclave è stato possibile fare entrare attraverso il valico Rafah appena tre convogli umanitari. In tutto 34 camion con cibo, acqua e farmaci ma non carburante, essenziale per alimentare i generatori che tengono accesi i macchinari negli ospedali e gli impianti di desalinizzazione. Una goccia nel mare, secondo le Nazioni Unite, rispetto alle necessità della popolazione stremata dall’assedio totale imposto da Tel Aviv.
La scorsa settimana il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha bocciato una risoluzione che chiedeva una “pausa umanitaria” per consentire l’invio di aiuti e l’apertura di corridoi umanitari. Con 12 voti a favore, il veto degli Stati Uniti e l’astensione di Russia e Regno Unito il testo presentato dal Brasile è stato respinto.
Neanche i leader dell’Unione europea finora sono riusciti a trovare un accordo su una posizione unitaria. Ci riproveranno domani e dopodomani a Bruxelles per il Consiglio Europeo. Secondo l’ultima bozza delle conclusioni circolata, l’Ue si appresta a chiedere “un accesso umanitario continuo, rapido, sicuro e senza ostacoli per raggiungere la popolazione, attraverso tutte le misure necessarie, inclusa una pausa umanitaria“.
Secondo le Nazioni Unite, i corridoi umanitari sono una delle possibili opzioni per mettere temporaneamente in pausa un conflitto armato, in un’area circoscritta e per un arco temporale definito. Sono frutto di un accordo tra le parti belligeranti che acconsentono all’apertura di un passaggio sicuro per l’evacuazione dei civili o l’ingresso di aiuti umanitari.
Attraverso un corridoio umanitario possono avere accesso alle zone di guerra attori neutrali come le Nazioni Unite, la Croce Rossa internazionale e le organizzazioni umanitarie. Rappresentano un’àncora di salvezza quando la popolazione è sotto assedio e privata di generi di prima necessità: cibo, acqua, elettricità. Negli ultimi decenni, i corridoi umanitari hanno permesso di salvare la vita a centinaia di migliaia di persone.
In genere l’apertura di un corridoio umanitario è negoziata dalle Nazioni Unite. Nonostante l’accordo delle parti, restano operazioni pericolose, che implicano rischi ingenti per i civili e per gli operatori umanitari. Senza contare l’eventualità, a dispetto dell’accordo tra le parti, di usi illeciti come il transito di armi o carburante per scopi militari.
Corridoi umanitari sono stati aperti sin dalla seconda metà del ’900. È il caso del Kindertransport, il programma che tra il 1938 to 1939 ha consentito di evacuare i bambini ebrei dalla Praga occupata dai nazisti. I passaggi sicuri sono stati creati anche durante la guerra civile spagnola nel 1937. In quell’occasione la Croce Rossa internazionale riuscì ad evacuare circa 2.500 persone, tra donne, bambini e anziani.
In casi rari i corridoi umanitari sono stati organizzati unilateralmente da una sola delle parti in conflitto. È il caso del ponte aereo approntato dagli Stati Uniti dopo il blocco imposto su Berlino dall’Unione Sovietica tra il 1948 e il 1949. Nei primi anni ‘90 i corridoi umanitari hanno permesso di rompere l’assedio di Sarajevo, durante la guerra in Bosnia-Erzegovina.
Un altro esempio di corridoio umanitario sono i ponti aerei organizzati dai Paesi occidentali dopo la presa di Kabul il 15 agosto del 2021 da parte dei talebani. In meno di due settimane dall’Afghanistan sono state portate via 120mila persone, di cui oltre la metà attraverso voli degli Stati Uniti.
L’Italia da parte sua ha messo in sicurezza oltre 5mila persone, in gran parte civili afgani, inclusi oltre 1.100 donne e quasi 1.500 bambini, grazie alla missione “Aquila Omnia” del ministro della Difesa.
Esempi recenti sono quelli in Siria e in Ucraina. Nel 2016, la Cri e la Mezzaluna Rossa araba siriana hanno facilitato l’evacuazione di oltre 25mila persone dall’Est di Aleppo verso le aree rurali della città e verso Idlib. Ancora tra il 2017 e il 2018 si stima che oltre 20mila persone siano fuggite dalla Ghouta orientale e abbiano trovato riparo nel centro della regione grazie ai passaggi sicuri. Nel caso del conflitto in Ucraina, a partire nel marzo del 2022, un mese dopo l’inizio delle ostilità, la Croce Rossa internazionale e le Nazioni Unite hanno reso possibile il passaggio sicuro di migliaia di civili da Mariupol nell’Est dell’Ucraina.
Dal 2016 in Italia i corridoi umanitari vengono organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, la Tavola valdese e la Cei-Caritas. Si tratta di un progetto-pilota, completamente autofinanziato, frutto di un protocollo d’intesa siglato con il governo italiano. Lo scopo principale è quello di offrire un’alternativa alle pericolose traversate nel Mediterraneo, che negli ultimi dieci anni, secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni, hanno causato la morte di quasi 30mila di persone.
Sono vie legali e sicure che permettono a chi fugge da guerra, persecuzioni e violenze e ai vulnerabili (famiglie, bambini, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso sul territorio italiano con visto umanitario. Un’alternativa ai viaggi organizzati a caro prezzo dai trafficanti di esseri umani.
La fase successiva, quella dell’accoglienza, è gestita dalle stesse organizzazioni. Ai profughi viene garantito un alloggio e insegnato l’italiano. I bambini frequentano la scuola. Dal 2016 a oggi sono quasi 6.500 le persone arrivate in Italia grazie ai corridoi umanitari. Si tratta perlopiù di siriani in fuga dalla guerra e rifugiati provenienti dal Corno d’Africa e dalla Grecia.
A monte invece c’è il lavoro dei volontari inviati dalle associazioni sul posto, che prendono contatti diretti con i rifugiati nei Paesi interessati dal progetto, predispongono una lista di potenziali beneficiari da trasmettere alle autorità consolari italiane, che dopo il controllo da parte del ministero dell’Interno rilasciano dei visti umanitari con validità territoriale limitata, cioè solo per l’Italia. Una volta arrivati nel nostro Paese legalmente e in sicurezza, i profughi possono presentare domanda di asilo.
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