Mezzo secolo dopo il colpo di Stato del generale Augusto Pinochet, il Cile resta diviso tra chi difende la dittatura militare e chi la ripudia.
La marcia organizzata questa mattina a Santiago del Cile per commemorare le vittime del regime è sfociata in violenti scontri con la polizia all’esterno della Moneda, il palazzo presidenziale da dove Salvador Allende, democraticamente nel 1970, viene spodestato l’11 settembre 1973.
L’edificio è stato vandalizzato e alcune finestre sono state rotte. Gli agenti hanno risposto con gas lacrimogeni e idranti. Secondo le stime ufficiali al corteo c’erano circa 5mila persone. Scontri si sono registrati anche nel cimitero che ospita un memoriale alle vittime.
A dare la misura delle divisioni che ancora oggi attraversano il Paese anche il fatto che l’attuale presidente, Gabriel Boric, sia il primo a partecipare alla commemorazione che si tiene ogni anno dalla fine della dittatura nel 1990.
Boric ha condannato “categoricamente” le violenze. “L’irrazionalità di attaccare ciò per cui Allende e tanti altri democratici hanno combattuto è ignobile”, ha scritto su X.
Anche se è passato mezzo secolo dal golpe, la ferita non si è ancora rimarginata. Tant’è vero che solo qualche settimana fa il presidente cileno ha presentato un “Piano nazionale per la ricerca della verità e della giustizia“, che mira a chiarire le circostanze della scomparsa o della morte nonché il destino delle vittime delle sparizioni forzate durante la dittatura.
A capo di un composito cartello di partiti di sinistra, Allende si propone di costruire il socialismo in Cile attraverso la via pacifica e democratica. Avvia la nazionalizzazione delle miniere di rame, carbone e ferro controllate da imprese straniere, mentre latifondi vengono espropriati e distribuiti ai contadini. Un governo che non ha una solida maggioranza e che, nel pieno della Guerra Fredda, è malvisto anche all’estero, a cominciare dagli Stati Uniti allarmati dall’espansione comunista.
Il Paese è profondamente diviso, complice la crisi economica. Dopo mesi di crescente tensione, fra scioperi dei camionisti e dei commercianti, i militari, che godono dell’appoggio di Washington, prendono il potere.
Il golpe dell’11 settembre 1973 inizia alle 6 del mattino, quando la marina cilena occupa il porto di Valparaiso. Appena informato, Allende corre al palazzo presidenziale della Moneda, dove lo raggiunge un ultimatum dei militari che gli impone di arrendersi e abbandonare il Paese.
Allende rifiuta e tenta di difendere il palazzo assieme ai suoi collaboratori. Ma sulla piazza avanzavano i carri armati del comandante in capo dell’esercito, il generale Pinochet, mentre l’aviazione bombarda La Moneda.
Il presidente socialista, rimasto solo nel palazzo, registra un ultimo discorso alla nazione: “Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà invano, sono certo che, almeno, sarà una lezione morale che castigherà la fellonia, la codardia e il tradimento“.
Secondo la versione più accreditata, Allende si uccide prima dell’arrivo dei golpisti. Si chiude così l’avventura politica dell’Unidad Popular, iniziata tre anni prima.
Quella che segue il golpe è una dittatura violenta, tra le più feroci della storia contemporanea. Nei primi cento giorni vengono fucilate 1.823 persone in caserme e strutture militari. Gli oppositori vengono rastrellati e torturati dalla polizia segreta cilena.
Il 14 settembre viene sciolto il Parlamento e i partiti politici sono sospesi. Nel giugno del 1974 Pinochet è nominato ”capo supremo della Nazione”. L’11 settembre del 1980 il regime approva una nuova Costituzione che prolunga di altri otto anni il mandato del presidente. Ma allo scadere del termine, il 5 ottobre 1988, i cileni bocciano con il 55,4% il referendum per tenerlo ancora al potere.
Il 14 dicembre 1989 con la vittoria alle elezioni del democristiano Patricio Aylwin, il Cile torna alla democrazia, ma Pinochet rimane comandante in capo dell’esercito fino al 1998, per poi essere nominato senatore a vita.
Nel 2000 il Cile decide di giudicare il proprio passato privando l’ex presidente dell’immunità. In seguito però la Corte Suprema stabilisce che il generale soffre di demenza senile e non è in grado di sostenere un processo.
Pinochet muore di morte naturale all’età di 91 anni, il 10 dicembre 2006, senza aver mai messo piede in un’aula di tribunale. Alla notizia della scomparsa, migliaia di persone vi riversano nelle strade in tutto il Paese, per festeggiare ma anche per commemorarlo. Ci sono scontri tra manifestanti e polizia con feriti e arresti. Non viene celebrato alcun funerale di Stato, ma una cerimonia funebre consona al rango di ex comandante delle forze armate. Partecipano migliaia di persone.
Oggi due cittadini su tre sono nati dopo il colpo di Stato militare. Proprio questa nuova generazione nel 2019 è scesa nelle strade per manifestare contro le disuguaglianze sociali e l’impianto ultraliberista della Costituzione nata sotto il regime di Pinochet.
E sono stati sempre i giovani cileni a eleggere il 37enne Boric, presidente dell’Unione della Sinistra, il primo nato dopo il colpo di Stato e il più a sinistra dal ritorno della democrazia.
Le figure di Allende e Pinochet continuano a dividere la società cilena. Secondo un’indagine Pulso Ciudadano-Activa Research, il 70% dei cileni ritiene che la commemorazione del cinquantenario del golpe sia “divisiva” e il 56,5% si dichiara “poco interessato” all’evento.
Il 52% ha un’opinione negativa del generale Pinochet. Ma c’è un 32,6% che giustifica il colpo di Stato, mentre il 43,5% lo condanna e il 24% non si esprime. Per il 39,9% la causa del golpe fu il presidente Allende, mentre il 30,8 % punta il dito contro le Forze Armate e il 30,6% accusa la Cia.
La divisione sulla memoria s’inquadra in un clima di polarizzazione politica, con il governo di sinistra che l’anno scorso ha perso il referendum per riformare la Carta fondamentale e l’estrema destra di José Antonio Kast, vicino ai nostalgici del golpe, che si è affermata alle elezioni di maggio per il Consiglio costituzionale che dovrà proporre un nuovo testo.
La stessa opposizione di destra che ha rifiutato di aderire al documento promosso da Boric e firmato lo scorso 7 settembre da tre ex presidenti post dittatura (Sebastian Pinera, Michelle Bachelet, Eduardo Frei), che hanno raccolto l’invito a mettere da parte “le legittime differenze” per “difendere la democrazia contro le minacce autoritarie“.
Ancora una volta l’anniversario evidenzia la difficoltà del Cile di fare i conti con il proprio passato per arrivare a una memoria condivisa.
Secondo i dati ufficiali, tra il 1973 e il 1990 le persone torturate, uccise, arrestate e scomparse sotto il regime sono state oltre 40mila. In 17 anni di dittatura, 3.216 persone sono state assassinate o sottoposte a sparizione forzata. I corpi di 1.469 persone arrestate e poi uccise non sono mai stati riconsegnati alle loro famiglie. Sono “desaparecidos“.
Intanto la giustizia ha iniziato a indagare sulle violazioni dei diritti umani a partire dal 1998. Circa 250 agenti attivi durante la dittatura sono stati condannati e sono attualmente in carcere.
“La ricerca delle persone arrestate e poi scomparse non è solo una questione di giustizia, ma anche di umanità. Individuare i luoghi di sepoltura, identificare le vittime e restituire i loro corpi non solo allevierà la sofferenza delle famiglie ma potrà anche aiutare a sanare le profonde ferite presenti nella società cilena. Perché ciò accada, è fondamentale che coloro che si sono ostinati a non rivelare tutte le informazioni di cui sono a conoscenza siano chiamati finalmente a fornirle”, commenta Rodrigo Bustos, direttore generale di Amnesty International Cile.
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