La notizia è arrivata nella mattinata italiana del 6 dicembre: Aung San Suu Kyi, attivista birmana Premio Nobel per la Pace nel 1991 e Consigliera di Stato del Myanmar dal 2016 a inizio 2021, è stata condannata a quattro anni di carcere. Una notizia che in realtà non sorprende, perché la donna è agli arresti proprio dal 1° febbraio di quest’anno, data del colpo di stato che ha rovesciato il governo democratico del Paese del Sudest Asiatico.
Aung San Suu Kyi, le motivazioni della sentenza e gli altri capi d’accusa
L’udienza che ha certificato la condanna di Aung San Suu Kyi si è tenuta a porte chiuse. I legali dell’attivista non hanno potuto fornire informazioni alla stampa. I media del regime hanno confermato che i quattro anni di carcere serviranno a punire “l’incitamento alla violazione delle restrizioni anti Covid-19“. Una motivazione che, secondo la comunità internazionale, suona come un pretesto per frenare la battaglia per la democrazia di uno dei simboli mondiali della lotta per i diritti umani.
Non bastasse la sentenza odierna, su Aung San Suu Kyi pende tutta una serie di capi d’imputazione che potrebbe costringerla al carcere a vita. Tra le accuse vi sono la frode elettorale, la violazione di un codice sui segreti di Stato risalente all’epoca coloniale e la corruzione, in riferimento all’acquisto di un elicottero privato utilizzando fondi pubblico. Un’accusa, quest’ultima, rivolta anche a Win Myint, presidente del governo democratico deposto a febbraio. Suu Kyi rischia ulteriori condanne per motivi all’apparenza banali. Come, ad esempio, quello di aver importato walkie-talkie, illegalmente secondo il regime.
Non c’è pace per il Myanmar
La situazione politica del Myanmar (conosciuto anche come Birmania, soprattutto durante il periodo coloniale britannico chiuso nel 1948) continua dunque a preoccupare la comunità internazionale. Aung San Suu Kyi, oggi 76enne, è il simbolo principale della lotta alle dittature militari che si sono susseguite fra gli anni ’60 e gli anni 2000. Tra il 1989 e il 2010 ha vissuto lunghi periodi di detenzione, ai domiciliari e in galera. Tanto che solo due anni dopo la sua definitiva liberazione, nel 2012, riuscì a ritirare il Premio Nobel per la Pace che vinse nel 1991.
Ha prestato il suo volto e le sue competenze durante la fase democratica del Myanmar, ricoprendo i ruoli di Consigliera di Stato, ministra degli Affari esteri e ministra dell’Ufficio del Presidente dal 2016 (non senza controversie, come quella legata alla repressione della minoranza Rohingya). Da febbraio di quest’anno, dopo il golpe guidato da Min Aung Hlaing, è di nuovo costretta a una dura battaglia per la democrazia. Che preoccupa anche l’Occidente.