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Afghanistan, la beffa: ai talebani i database Usa da milioni di dollari

L’ultima beffa della complica ritirata degli Usa e dei suoi alleati dall’Afghanistan riguarda l’utilizzo di alcuni database, che da strumenti per garantire la stabilità governativa potrebbero ora trasformarsi in ‘armi’ di repressione in mano ai talebani. Come riporta l’Associated Press, negli ultimi vent’anni gli americani hanno speso centinaia di milioni di dollari nello sviluppo di questi database.

Che, in origine, avevano nobili scopi. Come ad esempio promuovere legalità e ordine pubblico, ma anche modernizzare un Paese distrutto dalla guerra. Strumenti, questi, che dopo la ritirata degli eserciti occidentali da Kabul sono ora nella disponibilità dei talebani. I quali si teme possano utilizzarli per sorvegliare la popolazione e punire potenziali nemici del regime.

Il ‘Grande fratello’ dei talebani

Questi database governativi contengono infatti una grande mole di dati personali, raccolti anche tramite scanner biometrici. Ci sono ad esempio le generalità di funzionari e di civili, numeri di telefono, impronte digitali, scansioni delle iridi, indirizzi e nomi di parenti.

Banche dati che in origine servivano per aiutare il vecchio esecutivo a sviluppare i sistemi scolastici, migliorare la condizione delle donne e contrastare la corruzione. Tutti obiettivi raggiungibili solo da uno Stato in cui vige una forma di stabilità democratica, attualmente assente in Afghanistan.

Secondo quanto riporta l’Ap, i talebani starebbero utilizzando i dati contenuti in questi database per dare la caccia agli afghani che hanno aiutato le truppe americane negli ultimi vent’anni. Molti di loro, infatti, da settimane ricevono telefonate anonime e messaggi intimidatori; e molti sono costretti a nascondersi in un luogo diverso ogni giorno.

La protezione dei database militari

La preoccupazione maggiore riguarda i database più delicati, quelli utilizzati per i pagamenti alla polizia e ai soldati afghani prima della ritirata degli Usa. Si tratta infatti di banche dati contenenti le informazioni personali di oltre 700mila membri delle forze di sicurezza negli ultimi 40 anni.

In questo caso, comunque, solo il personale autorizzato può accedervi. Ciò non toglie che se i talebani non dovessero trovare qualcuno in possesso delle credenziali, potrebbero rivolgersi a qualcuno per hackerare i sistemi. Ad esempio ai servizi di intelligence di Paesi amici come Pakistan, Cina, Russia o Iran.

Le autorità statunitensi – scrive l’Ap – sostengono di aver messo in sicurezza i database della Difesa e dell’Interno dell’Afghanistan prima che i talebani ne entrassero in possesso. Quindi, di fatto, dovrebbero essere inutilizzabili. Ma il problema non riguarda solo i software militari.

Le banche dati dei ministeri afghani

Gli americani hanno infatti progettato gli altri database senza particolari forme di sicurezza e di tutela della privacy perché nessuno aveva messo in conto una ‘sconfitta’. E così è ora a rischio anche il sistema informatico con le informazioni sugli accordi stipulati dall’Afghanistan con le compagnie militari private nel corso degli anni; ma anche il database del Ministero dell’Economia sui finanziamenti ricevuti dall’estero.

E ancora il patrimonio digitale dell’Ente nazionale di statistica, con i dati sensibili di circa nove milioni di cittadini afghani. Questi ultimi, peraltro, contengono anche impronte digitali e scansioni delle iridi, che negli ultimi anni erano utilizzati per concedere passaporti, patenti di guida o per iscriversi ai test di ammissione in università.

Infine, c’è il database con le scansioni facciali di 420mila dipendenti governativi; e si sospetta che i talebani possano essere in possesso perfino dei registri delle elezioni, contenenti informazioni su oltre otto milioni di cittadini dell’Afghanistan.

Alessandro Boldrini

Classe 1998, laureato in Scienze Umanistiche per la Comunicazione alla Statale di Milano, sono giornalista pubblicista dal 2019. Mi occupo di cronaca nera, giudiziaria e inchieste sulla criminalità organizzata. Ho mosso i primi passi nella cronaca locale, fino a collaborare con il quotidiano statunitense The Wall Street Journal. Sono un attivista antimafia e partecipo come relatore ad assemblee pubbliche sul tema al fianco di magistrati ed esperti del settore. Amo il calcio, la musica, il cinema e la fotografia.

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