A distanza di più di due mesi dal ritiro delle truppe in Afghanistan, una famiglia di Kabul attende giustizia dagli Usa. È la famiglia di Zamarai Ahmadi, decimata lo scorso 29 agosto da un drone americano in risposta agli attacchi kamikaze che, tre giorni prima, avevano seminato morte e terrore nell’aeroporto della capitale afghana.
L’obiettivo dichiarato delle truppe Usa erano dei sospetti terroristi pronti, a loro dire, a un nuovo assalto all’aeroporto di Kabul. Dopo il raid, il Pentagono assicurò di aver centrato l’obiettivo, eliminando una potenziale minaccia. In realtà, nulla di tutto ciò avvenne.
Nell’attacco con il drone, infatti, rimasero fatalmente coinvolti dieci membri della famiglia Ahmadi, fra cui sette bambini. E oggi, dopo che – anche grazie alle inchieste dei media – la verità è emersa, questa famiglia chiede che venga fatta giustizia.
Lo chiede ad esempio Ajmal Ahmadi, fratello di Zamarai, che peraltro lavorava per una Ong statunitense attiva in Afghanistan. “Ci (gli Usa, ndr) ci hanno promesso che avrebbero processato i responsabili dell’attacco”, dice Ajmal alla Reuters.
“Ci hanno promesso dei risarcimenti… Hanno promesso che ci avrebbero portati via” dall’Afghanistan, aggiunge. Eppure, a più di due mesi da quel tragico evento, nulla di tutto ciò è mai accaduto.
Il Pentagono stesso, riporta sempre l’agenzia britannica, aveva preso in considerazione l’idea di risarcire i parenti delle vittime. Ma di quei risarcimenti, finora, non si è vista nemmeno l’ombra.
Il Dipartimento della Difesa, inoltre, aveva assicurato che avrebbe ricollocato negli Usa i membri della famiglia Ahmadi che vogliono lasciare Kabul. Intanto, al coro delle proteste dei parenti delle vittime si sono unite anche diverse voci dell’opinione pubblica.
Come ad esempio quella di Hina Shamsi, direttrice del National Security Project della Aclu, la American Civil Liberties Union. E che ora preme sul governo di Washington affinché la Casa Bianca agisca rapidamente.
Ma non solo. Il dibattito pubblico americano attorno a questa vicenda si è infatti riacceso la scorsa settimana, dopo che un’inchiesta dell’ispettore generale dell’esercito ha fatto luce su tutti gli errori commessi nel raid in Afghanistan.
Nonostante l’esercito Usa abbia riconosciuto l’errore, l’ispettore generale militare ha però detto che questa vicenda non è inquadrabile come un caso di “negligenza criminale”. E che dunque non sarà necessario alcun provvedimento disciplinare per i responsabili.
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