Era dal 1973 che negli Usa il diritto all’aborto era garantito dalla legge. Ora invece non lo è più, come conseguenza di una decisione della Corte Suprema. Questo non corrisponde a un divieto, ma permetterà a qualsiasi Stato della nazione di introdurlo. Proviamo però a capire come sia stato possibile, a partire dal ruolo dell’istituzione che ha scritto questa controversa pagina della storia.
Partiamo dall’inizio, ossia da ciò che è stato annullato. Si tratta della sentenza Roe vs Wade, che la stessa Corte Suprema emise quasi cinquant’anni fa. Era il 1973, anno in cui si decise di riconoscere alla texana Norma McCorvey il diritto di interrompere la gravidanza. Prima di allora in metà degli Usa l’aborto era trattato come un reato, in ogni caso. Superavano invece il numero di dieci gli Stati in cui era legale solo in caso di stupro, incesto, malformazioni o pericolo imminente per la vita della donna. E qui si rischia di tornare.
Non a caso gli Stati pronti a rendere l’aborto illegale sono 26, di cui 13 hanno leggi già pronte. Quella della Louisiana può entrare in vigore immediatamente. L’aspetto più particolare della vicenda, però, sta nel fatto che la Corte Suprema ha ribaltato una sentenza restringendo un diritto. Tradizionalmente, invece, avviene il contrario. Inquadriamo quindi ora i suoi poteri e la sua composizione.
La Corte Suprema degli Usa è la più alta carica della magistratura statunitense ed esiste dal 1789. A comporla sono nove giudici, con mandato a vita, o fino a ritiro o rimozione. La sua giurisdizione è estremamente estesa, e include anche la “judicial review“. Traducibile come “revisione giudiziaria“, di fatto rappresenta un controllo di legittimità costituzionale simile a quello della Corte Costituzionale in Italia. Questo permette ai nove giudici di annullare anche ordini esecutivi presidenziali, in caso di violazione della Costituzione o della legge ordinaria federale.
Decisiva per comprendere ciò che è successo diventa quindi la composizione dell’organismo e la modalità di elezione dei giudici. Il numero di nove risale al 1869, è non è mai cambiato. Così come il fatto che tutti i componenti della Corte Suprema sono scelti dal Presidente degli Usa, con il Senato che si limita a confermarli. E il loro ruolo è blindato, dato che la rimozione può avvenire solo per gravi problemi di salute o scandali a tutti gli effetti. La differenza rispetto al nostro sistema è evidente: in Italia i giudici sono 15, di cui un terzo nominati dal Presidente della Repubblica, un terzo direttamente dal Parlamento e un terzo dalla stessa Magistratura. Ricordiamo inoltre che il Presidente della Repubblica, a differenza di quello degli Usa, non è il capo del governo.
La nomina dei giudici della Corte Suprema, quindi, è profondamente politica. La loro scelta spetta in toto al Presidente in carica, con il Senato che spesso rappresenta la stessa maggioranza e può avallare le sue decisioni anche se controverse. E non a caso l’attuale composizione è il frutto di ben tre nomine di Donald Trump. Questo ha generato un 6-3 tra i magistrati di nomina repubblicana e quelli di nomina democratica. E 6-3 è finito non solo il voto sull’aborto, ma anche quello sul riconoscimento del diritto a girare armati “senza bisogno di provarne la necessità“. Una vittoria per Trump (che non a caso ha esultato sui social) e una disfatta per Joe Biden, non a caso costernato in conferenza stampa. Ma un risultato che non può che generare una nuova, profondissima riflessione sull’importanza di una netta separazione tra i poteri. Ora anche l’America, forse, se n’è accorta.
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