Coronavirus, in Corea del Sud è caccia all’‘untore’ gay

In Corea del Sud sembra che la pandemia di Coronavirus faccia più male se una persona è gay. Da qualche giorno, infatti, è partita nel Paese asiatico una discriminazione omofoba dopo che un ragazzo era stato trovato positivo al Covid.

Nella notte fra il primo e il 2 maggio, questo giovane 29enne asintomatico si era recato in tre bar di Itaewon, la zona gay della capitale sudcoreana Seul. Il paese asiatico, preso come esempio di gestione della pandemia senza uso di lockdown ma grazie alla capacità di contenere focolai di infezione con un rigoroso tracking dei contatti di tutte le persone infette, si accingeva ad allentare le misure di distanziamento sociale in atto (riaprendo anche le scuole) dopo aver mantenuto sotto i 50 il numero dei nuovi contagi al giorno per 25 giorni consecutivi. Ma il giorno 7, dopo che quel ragazzo era risultato fatalmente positivo al Coronavirus, le autorità sudcoreane si sono messe alla caccia di tutti i contatti del nuovo caso. In breve tempo hanno raccolto più di 5.500 nomi, costringendo tutti i bar di Itaewon a fornire i contatti delle persone che vi avevano avuto accesso nelle ultime settimane, le compagnie telefoniche i dati delle persone che erano state nella zona e le compagnie delle carte di credito a cedere le anagrafiche di tutti coloro che avessero effettuato pagamenti in quell’area.

In Corea del Sud è partito un linciaggio mediatico contro i gay affetti da Coronavirus

Il problema è che la Corea del Sud, dove l’omosessualità non è illegale, è però un Paese “socialmente conservatore”, come lo definisce il Guardian; essere gay è molto mal visto e non esistono leggi contro la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Il quotidiano britannico ha intervistato molte persone che hanno confessato il terrore che vivono in questi giorni: andare a fare il test può voler dire perdere il lavoro, perché vuol dire trascinarli a forza fuori dalla propria sfera della privacy. Più che un coming out volontario, è un outing in piena regola. Un linciaggio mediatico aperto da Kookmin Ilbo, un quotidiano legato alla chiesa evangelica, che ha denunciato che il ragazzo aveva frequentato bar destinati a un pubblico omosessuale, e seguito a ruota da molti altri giornali che hanno rivelato non solo i nomi, ma addirittura età e luoghi di lavoro di altri clienti, condannandoli alla gogna sociale e a una più che probabile perdita del posto di lavoro.

Le autorità hanno fatto sapere di essere riuscite e a mettersi in contatto con solo 2.000 persone; gli altri o non hanno risposto, o hanno fornito dati falsi. A ieri, secondo i Korea Centers for Disease Control and Prevention, erano più di 100 i nuovi casi legati al nuovo focolaio di Itaewon, il che ha forzato la chiusura di migliaia di locali e a ritardare la ripresa delle scuole. Quando si è scoperto che uno di loro era stato in una sauna, il livello di attacchi omofobi su stampa e online è cresciuto a dismisura, come denunciano le associazioni Lgbt locali. A nulla è servito che il premier Chung Sye-kyun chiedesse di “astenersi dal criticare una certa comunità, perché non aiuterà a fermare la diffusione del Coronavirus”. Il giornalista Hyunsu Yim parla su Twitter di “odio palpabile” contro la comunità Lgbt e di “caccia alle streghe”: “Conosco almeno due persone che hanno tolto le loro foto dalle app di appuntamenti” per i messaggi di odio ricevuti. Il tutto, dice, ricorda l’omofobia durante gli anni della crisi dell’Aids negli Stati Uniti. Secondo l’ong Solidarity for LGBT Human Rights of Korea, l’atteggiamento dei media “aggiunge stigma per la malattia all’odio per le minoranze che è prevalente nella società coreana”.

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