Uno dei temi dominanti in ambito di lavoro, da quando è esplosa l’emergenza Covid, è indubbiamente quello dello smart working. Una situazione vissuta in maniera decisamente contrastante sin dall’inizio, ma che ora rischia di vedersi accendere una nuova polemica. Il tutto a causa della proposta del ministro Brunetta di ripristinare il graduale rientro in presenza dei dipendenti della Pubblica Amministrazione, con l’obiettivo di ridurre al 15% l’attività da casa.
Quando l’Italia ha scoperto lo smart working
La vicenda si prospetta complicata, dato che non è mai stata messa a punto una reale normativa sullo smart working. Il lavoro da remoto, infatti, era stato introdotto con vere e proprie regole emergenziali. Ma ha creato uno status quo nuovo, da cui ormai non appare così automatico poter tornare indietro.
Basti pensare che, in base a quanto rilevato da Fondazione Studi Consulenti del lavoro, nel marzo del 2020 erano 1,8 milioni i dipendenti pubblici che lavoravano in smart working. Un numero colossale, se raffrontato al totale dei lavoratori del settore (3,2 milioni, per una percentuale quindi del 56,6%). Tali dati, che provengono dai dati forniti dalla Ragioneria dello Stato e dal Formez-“Rapporto di monitoraggio sull’attuazione del lavoro agile nelle PA”, sono calati solo relativamente man mano che l’emergenza rientrava.
I numeri dei lavoratori da remoto mese dopo mese
Anche solo nel settembre 2020, infatti, il 46,2% dei dipendenti pubblici (circa 1,5 milioni) continuava a lavorare da remoto. Nel maggio del 2021, invece, la quota di lavoratori in smart working era del 37,5%, pari ad un totale di 1,2 milioni di persone. Ben lontane, quindi, da quel fatidico 15% a cui sembra puntare il ministro Brunetta.
Calcoli alla mano, questa percentuale comporterebbe che lo smart working sarebbe concesso a soli 500 mila dipendenti pubblici italiani. Una situazione non certo di facile applicazione, soprattutto viste le nuove abitudini degli italiani. E, al ‘Corriere della Sera’, il presidente della Fondazione Studi Consulenti del lavoro, Rosario De Luca, ha provato a dare una soluzione. “L’esperienza maturata nel periodo emergenziale ha improvvisamente obbligato un elevatissimo numero di lavoratori a operare da casa – ha ricordato –. Essa va utilizzata per migliorare lo strumento e renderlo una modalità di lavoro alternativa“.
“Bisogna regolamentare meglio diritti e doveri, come reperibilità e diritto alla disconnessione. Serve insomma struttura, per rendere lo smart working un’opportunità per il futuro. E certo non l’unico modo in cui svolgere la prestazione lavorativa“, ha aggiunto De Luca.