Per i mercati finanziari non rappresenta certo una sorpresa. L’inflazione nel 2021 e quella prevista per il 2022 sarà sostanzialmente ovunque più alta rispetto al 2020, quando è esplosa la pandemia di Covid-19.
In Italia, ad esempio, quest’anno l’aumento dei prezzi ha segnato finora un +1,3%. Nel 2020 era stata del -0,1%. A maggio in Cina i prezzi alla produzione industriale sono cresciuti del 9%. Per quanto riguarda le materie prime, l’indice che ne raccoglie i prezzi è schizzato del 40% dai livelli pre-pandemia.
Sono due gli aspetti che contribuiranno a mantenere nei prossimi anni l’inflazione con un tasso positivo. Le politiche espansive delle banche centrali come la Bce e la Fed che mantengono i tassi di interesse a un livello basso. E il piano di stimoli all’economia che accompagnerà l’uscita dal Covid-19 nell’Unione europea e negli Usa.
Inoltre, la ripresa dei commerci internazionali, del turismo e dei consumi dei singoli cittadini rappresentano un’altra forza che spinge in alto i prezzi. Più persone vogliono un determinato bene, più il suo prezzo sarà destinato a salire.
Una buona notizia: infatti l’inflazione è in genere accostata alle fasi di ripresa. E l’economia è pronta per il “rimbalzo”. Nel medio periodo il danno all’economia causato dalla pandemia è stimato del -3%. Dopo la recessione del 2008-2009 era stata del -9%. Per questo le autorità economiche non sono preoccupate e i governi nazionali sono anzi contenti.
Potranno risparmiare nel pagare gli interessi del debito pubblico, aumentato a dismisura nell’ultimo anno e mezzo per poter garantire i ristori durante i vari lockdown. Inoltre, se aumentano i prezzi, il valore del denaro scende, e con esso quello dei debiti contratti in precedenza.
Non proprio. Se l’inflazione comincia a correre le banche centrali saranno costrette a intervenire per alzare i tassi di interesse per ridurre la circolazione di denaro. E molti benefici derivanti dall’inflazione verrebbero neutralizzati dalle politiche restrittive.
Senza contare gli effetti negativi per Paesi fortemente indebitati come l’Italia che hanno beneficio dei bassi tassi di interesse. In poche parole, potrebbe riaffacciarsi lo spettro dello spread.
L’aumento del costo delle materie prime può rappresentare inoltre un freno perché rende alcune produzioni troppo costose e quindi non convenienti. Inoltre, prezzi troppo alti tornerebbero a ridurre i consumi da parte di cittadini in difficoltà rallentando nuovamente la produzione.
Per il momento, come detto, le banche centrali non sembrano essere preoccupate. Anche perché secondo gli esperti nei prossimi mesi i sistemi economici torneranno ad affrontare le forze che spingono per la deflazione. Ad esempio, nel mercato del lavoro. L’occupazione tende ad abbassare i salari. Mentre lo sviluppo tecnologico tende ad abbassare i costi.
Un “equilibrio” tra spinte inflazionistiche e deflazionistiche che offre una parentesi per i governi. Una sorta di “tregua” per concentrarsi, nel caso dell’Italia, sulle riforme chieste dall’Ue per gestire il Recovery Plan. La domanda è se questa situazione perdurerà ancora a lungo o i mercati finanziari torneranno a far sentire la loro pressione.
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