Una questione solo in parte linguistica, ma anche e forse soprattutto sociale. È quella dello “schwa“, fonema ma anche grafema (ə) che incarna il desiderio di inclusività di coloro che si identificano nel genere non binario. Ma che ora anche luminari della cultura italiana attaccano. Tanto da sottoscrivere una petizione per non introdurlo nel nostro alfabeto. Cerchiamo di capire dove nasca la polemica e se sia giusto renderla una vera e propria battaglia.
La petizione è ospitata dall’immancabile ‘Change.org’, e a lanciarla è stato Massimo Arcangeli. Non un conservatore retrogrado, bensì un linguista e scrittore, ordinario di Linguistica italiana dell’Università di Cagliari. “Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa“, afferma.
Ma tra coloro che hanno sposato la guerra allo schwa figurano altri nomi centrali della cultura italiana. Non solo italianisti come Luca Serianni, insigni professori come Alessandro Barbero, scrittori come Paolo Flores d’Arcais e Edith Bruck, filosofi come Massimo Cacciari o giornalisti come Ettore Boffano e Michele Mirabella. Ma addirittura Claudio Marazzini, nientemeno che il presidente dell’Accademia della Crusca.
Proprio la Crusca ha affrontato il tema dello schwa in un lungo articolo intitolato “Un asterisco sul genere“. E qui si prova a capire come il tema, per i linguisti, non riguardi l’inclusività o l’uguaglianza. Ma proprio la “purezza” dell’italiano che, si dice, sarebbe messa a repentaglio. Si tratterebbe infatti di segni che (citando l’Accademia) “opacizzano le desinenze maschili e femminili“.
Il problema, come noto, nasce proprio dal fatto che la lingua italiana ha solo i generi maschile e femminile. Non solo non esiste un neutro, ma se individuiamo un gruppo di persone, animali o cose che includono maschi e femmine, la nostra lingua ci obbliga a utilizzare il genere maschile (definito in questo caso “maschile sovraesteso“). Da qui il ricorso allo schwa, che pure la Crusca contesta. “Che il genere come categoria grammaticale non coincida affatto con il genere naturale si può dimostrare facilmente: è presente in molte lingue, ma ancora più numerose sono quelle che non lo hanno“, afferma infatti.
Resta il fatto che, almeno per il momento, lo schwa è tutt’altro che entrato nell’uso quotidiano degli italiani. A utilizzarlo correntemente è una strettissima minoranza, e anche nei documenti ufficiali è rarissimo trovarlo. La stessa petizione nasce proprio da un documento del ministero dell’Università e della Ricerca, per la “procedura di conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale di professorə universitario di prima e seconda fascia“. E proprio il rumore che questo ha creato aiuta a capire come non siamo affatto di fronte a un’abitudine consolidata. In altre parole, l’italiano non è “sotto attacco”.
Tanto più che, come la stessa Crusca sottolinea in un altro punto della sua analisi, “ogni lingua è un organismo naturale, che evolve in base all’uso della comunità dei parlanti“. E quindi anche lo schwa potrà diventare di uso comune o meno, a seconda di quanto, come e quando attecchirà tra i cittadini. Tenuto conto del fatto che al momento è più un segno che un suono. Suono che, ricordiamolo, esiste.
Lo schwa, reale vocale ebraica, equivale infatti a quel rumore strozzato che in tante lingue del mondo (e anche diversi dialetti italiani) è di uso ampiamente comune. Pensiamo alla vocale di “surf“, che si trova in un certo senso a metà tra la “u”, la “e” e la “a”. O le finali di tante parole napoletane, che nella lingua scritta semplicemente non si scrivono. Si pensi a “vir’ o mar’ quant’è bell“. Le consonanti che mancano, alfabetico fonetico alla mano, sono tutte ə.
Quindi sì, l’italiano non è sotto attacco. E quindi sì, lo schwa non è di uso comune ma non è da escludere che lo diventi. Senza però intaccare la lunghissima, meravigliosa, studiatissima storia della nostra lingua. Che un altro pezzo da novanta della nostra cultura, Gian Antonio Stella, ha perfettamente inquadrato nel suo incipit di un articolo per ‘Il Corriere della Sera’. Il pericolo di un “Silviə, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, lietə e pensosə , il limitare / di gioventú salivi?“, infatti, semplicemente non esiste.
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