Arriva il primo storico via libera al suicidio assistito in Italia. Succede nelle Marche, dove il Comitato etico dell’Asur, l’Azienda sanitaria unica regionale, ha attestato che un paziente tetraplegico e immobilizzato a letto da dieci anni ha i requisiti per accedervi.
Come riportano fonti di stampa, il ‘sì’ al suicidio assistito è arrivato dopo due diffide legali all’Asur. Fondamentale anche l’assistenza fornita dall’Associazione Luca Coscioni, promotrice del referendum sull’eutanasia che ha raccolto oltre 1,2 milioni di firme.
Si tratta del primo caso di suicidio medicalmente assistito in Italia dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo. L’Associazione Coscioni ha anche reso noto il primo commento del malato coinvolto: “Mi sento più leggero, mi sono svuotato di tutta la tensione accumulata in questi anni”.
Il tesoriere dell’Associazione Coscioni, Marco Cappato, ha invece puntato il dito contro lo “scaricabarile istituzionale” sul tema. “Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha a tutti gli effetti legalizzato il suicidio assistito, nessun malato ha finora potuto beneficiarne, in quanto il Servizio sanitario nazionale si nasconde dietro l’assenza di una legge che definisca le procedure”.
L’ultimo passo sarà ora la somministrazione del farmaco eutanasico per porre fine alle sofferenze del paziente marchigiano. Ma prima che venisse di fatto legalizzato il suicidio assistito, quali erano le altre ipotesi per accedere al fine vita?
Il caso più celebre è sicuramente quello citato di Dj Fabo. Fabiano Antonini, rimasto tetraplegico dopo un incidente, scelse di andare in una clinica Svizzera per il suicidio assistito tramite la somministrazione del Pentobarbital. Un altro farmaco utilizzato è il Propofol.
Fu lo stesso Dj Fabo a spingere autonomamente con la bocca il pulsante per attivare l’immissione del farmaco, un barbiturico letale se preso oltre determinate dosi. Con esso il paziente entra in uno stato di coma profondo, mentre medicinale blocca la respirazione fino alla morte nell’arco di trenta minuti.
C’è poi il caso di Giovanni Nuvoli, che vistosi negare il distacco del respiratore per l’intervento dei carabinieri, scelse di smettere di mangiare e bere, morendo in venti giorni. Oppure quello di Piergiorgio Welby, che diede disposizione a un anestesista dell’Associazione Coscioni di sedarlo e staccargli il ventilatore. Il medico fu poi assolto dall’accusa di omicidio volontario.
Diverso è invece il caso della sedazione palliativa profonda continua. Cioè il metodo scelto da Dino Bettamin, un macellaio trevigiano malato di Sla, che acconsentì alla sedazione con un mix di morfina e altri farmaci e alla sospensione di ogni terapia. Non è considerata a tutti gli effetti eutanasia perché il paziente è addormentato, anche se la morte sopraggiunge comunque in circa 72 ore.
Infine, il caso più celebre, che divenne anche politico. Quello di Eluana Englaro, che ha trascorso 17 anni della sua vita in coma vegetativo dopo un incidente stradale. I suoi genitori lottarono per anni affinché si interrompesse l’accanimento terapeutico fino a quando Eluana morì tre giorni l’interruzione dell’alimentazione forzata.
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