Milano, ora è incubo desertificazione: “Grazie allo smart working non ci tornerò più”

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Le ferite lasciate dalla pandemia si toccano con mano soprattutto nelle grandi città.
Nel segno dello smart-working, la desertificazione all’interno di uffici e grandi spazi dove una volta impiegati e addetti ai lavori erano chiamati a trascorrere la loro quotidianità lavorativa prosegue, a tutt’oggi, inesorabile. La desolante atmosfera di luoghi dove fino allo scorso anno si respiravano operosità e dinamismo rappresenta l’inevitabile scia di un virus che sta lasciando sul campo vittime non soltanto fra i malati.

Milano è fra quelle.

Milano, un exploit fine a se stesso?

Destinazione finale dei sogni degli emigranti dal Sud negli anni 60-70, il capoluogo lombardo aveva ritrovato prestigio e riconoscibilità internazionale dopo l’Expo del 2015. Veri e propri anni d’oro quelli che hanno seguito l’Esposizione Universale, con affitti schizzati alle stelle e una skyline modificatasi in poco tempo sulla scia delle metropoli più note: le torri Unicredit, Allianz, Hadid e Libeskind, per non parlare del Bosco Verticale, di City Life e Porta Nuova, sono solo alcuni esempi di un fermento edilizio che ha puntato alla creazione di uffici stile Manhattan e residenze da mille e una notte.

Insomma, uno sviluppo repentino, centralizzante, un richiamo inequivocabile per chiunque cercasse un’opportunità di vita, soprattutto fra i giovani, nella città più internazionale d’Italia, più volte citata nelle classifiche delle location più in ascesa fra le metropoli mondiali, dove mobilità, servizi, qualità di vita prometteva efficienza e benessere.

Inutile dire che, proprio come accaduto nella seconda metà del secolo scorso, quel richiamo è stato recepito: gli atenei milanesi hanno goduto di volumi di iscrizioni mai registrati prima, quegli stessi uffici al trentesimo piano sono stati facilmente riempiti, grandi gruppi di investitori stranieri hanno messo le mani su un terreno così fertile, per non parlare dei grandi brand (Starbucks, Apple, Primark, giusto per citarne alcuni) hanno visto in Milano il trampolino di lancio per una cavalcata europea.

E adesso?

Al di là di una prima ondata che la città, come pure tutta la Lombardia, ha subito in maniera notevole, come spesso abbiamo descritto sulle pagine di newsby, e sulla quale non ci addentreremo in questo contesto, è però altresì vero che le conseguenze del Covid sull’ “Eldorado” italiana non siamo stati ancora in grado di toccarle con mano.

A patto che, tuttavia, non ci si imbatta in chi, dopo mesi di affitti “a vuoto” e lavoro da casa (quella natìa), alla valigetta che usava portare in ufficio e che è rimasta per mesi a casa sta sostituendo il trolley con un biglietto di sola andata (anzi, di solo ritorno) per quegli stessi luoghi dai quali era partito.

Smart-working, “Addio Milano, torno al paese”

E’ il caso di Davide Dalla Pria, un collega giornalista di Udine, che da circa due anni risiedeva a Milano con la sua compagna, in un piccolo appartamento in affitto in zona Certosa.
Davide, che lavora per un’agenzia di servizi editoriali e non rinuncia a qualche collaborazione come ufficio stampa, la sera del primo Dpcm si trovava nella sua Udine, pronto a rientrare in Lombardia come spesso gli accadeva. “Da quella sera è cambiato tutto – racconta –. Mi sono ritrovato a trasferire la mia quotidianità lavorativa a casa dei miei, che ero andato a trovare come accade a tutti i fuori sede che riescono a staccare per qualche giorno”.

Già, la quotidianità. E’ lì che l’Italia ha conosciuto il termine “smart-working”, è lì che Davide ha iniziato a toccare con mano l’inutilità di pagare un canone di affitto senza mai frequentare quello stesso appartamento.
Non avevo in mente di lasciare Milano, ma alla lunga ho compreso come io potessi ottemperare al mio lavoro anche da Udine e soprattutto di quanto spese e costo della vita fossero inferiori rispetto alla mia città lavorativa”.
Una città lavorativa che, per Davide come tanti altri, ha ricominciato a essere proprio quella natìa.
Se in passato, infatti, chi faceva ritorno “al paese” era fra quelli che “non ce l’avevano fatta”, nell’era della pandemia quest’etichetta risulta assolutamente inopportuna.

Ho comprato un appartamento alle porte di Udine – conclude Davide – e continuerò a svolgere il mio lavoro dal Friuli: i miei datori di lavoro sono contenti del mio operato da casa e non hanno posto alcun problema a questa decisione”.

Prima gli uffici, ora le case: quale sarà il futuro di Milano?

La storia di Davide è una storia che, immaginiamo, apparterrà a centinaia di lavoratori che fino a ieri popolavano il capoluogo meneghino.
Da Nord a Sud, dalla Liguria alla Romagna, sono in molti a porsi lo stesso quesito che ha indotto il giovane giornalista friulano a fare ritorno nella sua terra di origine.

Ma quali saranno le conseguenze di questo esodo inaspettato?

A darcene un’idea tornano proprio quegli uffici di cui parlavamo in apertura.
Moltissime, infatti, sono le aziende che hanno cavalcato la “moda” del lavoro agile, delle videoconferenze via Zoom o Teams, ma anche semplicemente del risparmio, per agevolare lo spostamento “in smart working” dei propri dipendenti a scapito di quegli spazi che, via via, vanno restringendosi, con contratti di affitto ridimensionati, spazi più piccoli o decentralizzati, proposte economiche al ribasso.

Innanzi a questo trend, la risposta dei locatori è duplice: a chi preferisce riempire i propri spazi ridefinendo il canone al ribasso, c’è chi risponde lasciando proprio quegli spazi vuoti, in attesa di tempi migliori.

Tempi in cui quelle ferite ora appena visibili saranno rimarginate, dove dal deserto sbucheranno oasi di lavoro magari con caratteristiche differenti ma pur sempre “in presenza”, tempi in cui quella vitalità propria della routine tanto bistrattata ci farà dimenticare di essere state vittime di questo virus, non soltanto perché malati.

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