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CRONACA

Lucano condannato, cosa non ha funzionato nel modello Riace

L’ex sindaco di Riace, Domenico “Mimmo” Lucano, è stato condannato a 13 anni e due mesi di reclusione nel processo “Xenia”, sui presunti illeciti nella gestione dei migranti. La sentenza condanna Lucano a quasi il doppio degli anni di reclusione chiesti dalla pubblica accusa (7 anni e 11 mesi). I reati contestati dalla Procura erano di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Questa é una vicenda inaudita. Sarò macchiato per sempre per colpe che non ho commesso. Mi aspettavo un’assoluzione“. Queste le parole di Mimmo Lucano a commento della sentenza. “Grazie, comunque, lo stesso – ha aggiunto – ai miei avvocati per il lavoro che hanno svolto. Io, tra l’altro, non avrei avuto modo di pagare altri legali, non avendo disponibilità economica“.

Una sentenza lunare e una condanna esorbitante che contrastano totalmente con le evidenze processuali“. Così gli avvocati Giuliano Pisapia e Andrea Dacqua, difensori di Mimmo Lucano, dopo la condanna decisa dal Tribunale di Locri.

Le accuse mosse a Lucano

Lucano era stato arrestato il 2 ottobre 2018 nell’ambito di un’inchiesta della Guardia di Finanza. Nome in codice dell’operazione: “Xenia”. Una parola che paradossalmente in greco antico si riferisce proprio al concetto di ospitalità. Secondo le fiamme gialle, Lucano e la compagna Tesfahun avevano “architettato degli espedienti criminosi. L’obiettivo era di aggirare la disciplina prevista dalle norme nazionali per ottenere l’ingresso in Italia”.

Nel corso dell’inchiesta erano emerse irregolarità che il primo cittadino avrebbe commesso nell’organizzare “matrimoni di convenienza” tra cittadini del posto e donne straniere. Tra le accuse c’è anche la mancata rendicontazione di alcune spese, i rapporti con le associazioni locali e perfino il mancato pagamento delle imposte sulle carte d’identità.

Il modello Riace

Domenico Lucano è l’uomo che ha inventato il “modello Riace”, un metodo di gestione dell’accoglienza divenuto famoso in tutto il mondo. L’eco di quanto avveniva nel comune calabrese era arrivato perfino alle orecchie della rivista Fortune, che nel 2016 lo inserì nella lista dei 50 leader più influenti al mondo.
Ma in cosa consiste il “modello Riace”? Lucano aveva trovato una sua personale soluzione per fare fronte all’immigrazione clandestina. Sperimentando nuovi modelli per favorire l’integrazione all’interno della società. Trasformando un problema in una soluzione.

Il metodo Riace è risultato particolarmente innovativo nell’affrontare la gestione socioeconomica dei migranti, trasformandoli in cittadini impegnati e produttivi. I 35 euro pro capite destinati ai richiedenti asilo vengono trasformati in “borse lavoro”. L’obiettivo è dare la possibilità a uomini e donne di imparare un mestiere e assicurarsi uno stipendio. A Riace viene creata anche una rete di esercizi commerciali convenzionati che permette ai migranti di provvedere alle spese domestiche.

La moneta alternativa

Il modello Riace funziona così bene che molti di loro decidono di proseguire la loro vita lì, in una zona sempre più abbandonata dai nativi. Ma i soldi necessari ad alimentare la macchina dell’immigrazione arrivano con troppi ritardi. É a questo punto che il sindaco Lucano decide di inventare una moneta locale. Banconote che raffigurano Peppino Impastato, Gandhi e Che Guevara, spendibili solo a Riace. Ma si tratta di una soluzione tappabuchi e i soldi continuano a non arrivare.
C’è poi una disorganizzazione che rende impossibile tenere traccia delle attività di Riace e valutare gli esiti. Per la procura, il modello Riace sta virando sempre più un pericoloso assistenzialismo, troppo difficile da controllare.

Il risultato è stata una condanna, certamente inaspettata da molti e sicuramente da Domenico Lucano. “Sarò macchiato per sempre per colpe che non ho commesso” ha commentato alla lettura della sentenza. Un verdetto che oggi ha chiuso per sempre una storia che, ai suoi inizi, sembrava forse troppo bella per essere vera.

 

Giulia Martensini

Classe '89, sono laureata in Giornalismo e Cultura Editoriale e mi occupo da diversi anni di redazione di contenuti per l'online e articoli in ottica SEO. Nata a Brescia, ho vissuto a Parma e Milano con una parentesi di 10 mesi a Salamanca. Lettrice accanita ed ex attivista di Greenpeace Italia, scrivo soprattutto di attualità, sostenibilità e cultura.

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