Durante la presentazione del suo ultimo libro al Salone del Libro di Torino, Eugenia Roccella, la ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, ha dichiarato che l’obiezione di coscienza, abbracciata in Italia da numerosi ginecologi, non rappresenta un ostacolo al diritto all’aborto. Quest’ultimo è riconosciuto dalla legge 194 del 1978, che prevede anche le condizioni che devono essere rispettate affinché l’interruzione di gravidanza avvenga in modo legittimo. In molti casi, anche quando tutti i criteri sono rispettati, può comunque rivelarsi complicato abortire, proprio per l’elevata percentuale di medici che si appellano all’obiezione di coscienza negli ospedali italiani.
Come spiegato dal dizionario online di Treccani, l’obiezione di coscienza è il rifiuto a sottostare a una norma considerata ingiusta perché “in contrasto inconciliabile con un’altra legge fondamentale della vita umana, così come percepita dalla coscienza, che vieta di tenere il comportamento prescritto”. Nel caso dell’aborto, vari ginecologi ritengono l’embrione una forma di vita da salvaguardare e sono contrari all’idea di porre fine alla sua esistenza. Spesso questa posizione coincide con l’appartenenza a un credo religioso.
Da una ricerca condotta dall’antropologa Silvia De Zordo tra il 2011 e il 2012 sono però emerse altre possibili motivazioni dietro all’obiezione di coscienza. Alcuni medici, infatti, non considerano l’aborto un crimine o un peccato, bensì un problema sociale di salute pubblica. De Zordo ha raccolto le testimonianze di alcuni ginecologi che sono diventati obiettori di coscienza per evitare di essere discriminati dai colleghi e dai primari. Altri hanno scelto questa strada per evitare di essere relegati a svolgere interruzioni di gravidanza per tutta la carriera. Dal punto di vista medico, infatti, queste operazioni sono relativamente semplici e quindi poco gratificanti.
Dal punto di vista economico, l’interruzione di gravidanza è una delle poche pratiche che per la sanità pubblica non può essere intramoenia, ossia praticata in libera professione all’interno degli ambulatori ospedalieri, facendosi pagare dalle pazienti. I guadagni esigui rappresentano una delle ragioni che inducono alcuni ginecologi a diventare obiettori di coscienza.
Per avere un esempio concreto dell’impatto dell’obiezione di coscienza sul diritto all’aborto non bisogna far altro che prendere in considerazione le Marche, una delle regioni in cui il numero dei medici obiettori è elevatissimo. “Le Marche hanno raggiunto in soli due anni l’81% di obiettori, è un numero spaventoso”, ha osservato Marte Manca, attivista di Non una di meno Marche, durante una manifestazione ad Ancona. “Sono saliti a tre (su undici) gli ospedali con obiezione di struttura, ossia dov’è impossibile abortire: sono sempre più le donne costrette ad andare fuori regione, a loro spese e sovraccaricando le altre strutture”, ha aggiunto Manca.
Secondo la relazione del ministero della Salute presentata nel 2022, nel 2020 il 64,6% dei ginecologi italiani era obiettore di coscienza, un dato in leggera diminuzione rispetto al 2019. Inoltre, abbracciavano l’obiezione di coscienza il 44,6% degli anestesisti e il 36,2% del personale non medico. Dal report “Mai dati” dell’associazione Luca Coscioni, a cura di Chiara Lalli e Sonia Montegiove, emerge però che i dati ministeriali non sono aggiornatissimi e che in alcune zone dell’Italia la situazione è ancora peggiore. Nel Paese ci sarebbero ben 72 ospedali con una percentuale di obiettori all’interno del personale sanitario compresa tra l’80% e il 100%. Inoltre, ci sarebbero anche 22 ospedali e quattro consultori con il 100% di obiettori tra tuto il personale sanitario, 18 ospedali con il 100% dei ginecologi obiettori e, infine, 46 strutture con una percentuale di obiettori superiore all’80%.
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