Sono passati sessant’anni dal disastro del Vajont. Il 9 ottobre 1963 una frana e la successiva onda d’acqua scatenatasi portarono con loro quasi duemila vite. Fu la conseguenza di una serie di negligenze e di allarmi inascoltati. Da anni, infatti, i residenti, ma non solo, denunciavano la pericolosità della diga al confine tra il Friuli-Venezia Giulia ed il Veneto, nel comune di Erto e di Casso, in provincia di Pordenone. L’enorme opera aveva stravolto il corso del Vajont, affluente del Piave, e il territorio circostante. Il risultato fu una tragedia tanto sconvolgente quanto evitabile.
In un periodo in cui si aveva sempre più necessità di energia elettrica, la Sade, Società Adriatica di Elettricità, decise di creare una diga nella valle del Vajont per sfruttare in modo capillare le acque del bacino del Piave per produrre energia. Il progetto risale agli anni ’20, ma vede la luce soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Servì, infatti, attendere il 1957 per l’inizio dei lavori, completati nel 1959. Già allora, peraltro, la nuova e imponente infrastruttura non era di certo stata accolta con entusiasmo dai residenti. Da un lato si erano alzate numerose proteste per gli espropri di Sade, dall’altro erano molte le preoccupazioni per la tenuta delle sponde del lago che si era andato a creare con l’arrivo della diga. Proteste e preoccupazioni che andarono avanti per molto tempo. A poco servirono, perché Erto, Casso, Longarone e tutte le altre frazioni dovettero comunque fare i conti con una diga a doppio arco dell’altezza di 261,60 metri e della lunghezza di 190 metri alla sommità e con un lago della capacità complessiva di circa 170 milioni di metri cubi.
A dare voce alle proteste dei residenti ci pensarono alcuni giornali. Su tutti, l’Unità, con la giornalista Tina Merlin, che si occupò in prima persona di quanto stava accadendo con il Vajont e che più volte puntò il dito contro la Sade. Allo stesso tempo, anche alcuni geologi incaricati dalla stessa azienda espressero le loro preoccupazioni. Nello specifico Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, e Franco Giudici. Nella loro relazione definitiva, consegnata nel giugno 1960, essi affermarono che sul versante settentrionale del monte Toc prospicente l’invaso era presente una frana antica, già scivolata in epoca preistorica a sbarrare la valle, che a seguito della creazione del lago avrebbe potuto muoversi nuovamente. Insomma, gli allarmi arrivarono da ogni parte, ma rimasero inascoltati.
Si arrivò, così, al 9 ottobre 1963. La montagna aveva già mandato segnali chiari. Più volte delle frane avevano messo a serio rischio la stabilità della diga e nel 1960 era apparsa una importante frattura che rappresenterà, si scoprirà poi, la nicchia da cui partì la frana mortale di tre anni dopo. Il 9 ottobre, quindi, accadde l’irreparabile. Alle 22.39 una frana di 260 milioni di metri cubi di roccia e fango si staccò dal monte Toc e precipitò nel bacino sottostante, creando un’onda di 250 metri d’altezza che, in parte, sbattè e risalì sulla montagna opposta, ‘piallando’ la parte bassa di Erto e Casso, in parte si lanciò verso la diga, la scavalcò, e con la forza di 30 milioni di metri cubi d’acqua in viaggio a 80 chilometri orari piombò su Longarone. I morti furono 1.910, 460 dei quali bambini sotto i 15 anni. A Longarone, che contò 450 vittime, 305 famiglie scomparvero completamente. Gli altri morti si contarono a Codissago e Castellavazzo (109), Erto e Casso 158, mentre 200 furono le vittime originarie di altri comuni.
Memorabile e tragica la frase scritta su La Stampa da Giampaolo Pansa: “Scrivo da un paese che non esiste più“. Longarone venne rasa al suolo e con essa un intero territorio, le sue tradizioni e la sua storia.
I processi per individuare i responsabili sono proseguiti fino al 2000. Sono stati condannati diversi funzionari, dirigenti e tecnici di Sade ritenuti colpevoli di inondazione, aggravata dalla prevedibilità dell’evento, e di non aver dato per tempo l’allarme alla popolazione. Enel, che all’epoca dell’incidente controllava la Sade, e Montedison, che nel frattempo aveva acquisito la società, furono condannate al risarcimento dei danni. Enel mise a disposizione 10 miliardi dell’epoca, ma con la condizione che i superstiti rinunciassero a costituirsi parte civile. Quasi tutti accettarono.
“Oggi ricordiamo il tragico disastro del Vajont, una ferita profonda nella nostra storia. Quasi 2 mila vittime, interi paesi spazzati via, una tragedia che poteva e doveva essere evitata. A distanza di 60 anni, il ricordo del Vajont resta un monito per tutti noi – ha sottolineato Giorgia Meloni in occasione delle commemorazioni – Non dobbiamo dimenticare quanto è costata l’irresponsabilità umana in quella terribile notte del 9 ottobre 1963 a una comunità che era pienamente consapevole dei rischi, ma che rimase inascoltata“.
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