L’assassinio efferato di Giulia Tramontana rientra di diritto in una delle pagine più nere della cronaca italiana, quella che racchiude i nomi delle tantissime vittime dei femminicidi. A rendere ancora più grave quanto avvenuto c’è la morte di Thiago, il figlio mai nato della giovane donna, che non ha mai visto la luce del sole per colpa di Alessandro Impagnatiello, suo padre. La brutalità di quanto avvenuto ha scosso l’opinione pubblica, portando varie persone a parlare di “duplice omicidio” e a chiedere pene severissime per l’omicida. Per quanto l’indignazione sia comprensibile, bisogna fare alcune considerazioni di natura legale su quanto avvenuto per inquadrare in modo accurato il crimine confessato da Impagnatiello e le possibili implicazioni di una sua interpretazione errata.
L’articolo 575 del Codice Penale stabilisce che “chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. È possibile parlare di omicidio solo se il soggetto ucciso gode della capacità giuridica, ossia della capacità di essere soggetto di diritti e di obblighi. Come spiega l’articolo 1 del Codice Civile, “la capacità giuridica si acquista al momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita”. Dal punto di vista giuridico, la vita di un bambino inizia quando avviene il distacco dal corpo della madre e incomincia la respirazione autonoma.
Nel caso di Thiago, queste condizioni non si erano ancora verificate, quindi non è corretto parlare di omicidio. Quel che è avvenuto resta comunque un crimine gravissimo e ha un nome ben preciso: interruzione di gravidanza non consensuale. L’articolo 593-ter del Codice Penale stabilisce che “chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni. Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno. La stessa pena si applica a chiunque provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna”.
Se un tribunale condannasse Alessandro Impagnatiello per duplice omicidio si creerebbe un precedente insidioso, che potrebbe portare a mettere in discussione il diritto all’aborto (la cui applicazione è già difficoltosa a causa del numero elevato di ginecologi obiettori di coscienza presente in Italia). L’interruzione volontaria di gravidanza è regolata da leggi ben precise. Può essere richiesta entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari e, come previsto dalla Legge 194/78, dev’essere preceduta dall’esame delle possibili soluzioni delle problematiche che impedirebbero di portare avanti la gravidanza, dall’aiuto a rimuovere le stesse e dall’invito a soprassedere per sette giorni in assenza di urgenza.
Un ipotetico riconoscimento della capacità giuridica del feto al momento del concepimento, auspicato dai cosiddetti “movimenti pro-vita”, renderebbe pressoché impossibile abortire in modo legale (se non in casi rarissimi) e potrebbe portare a una situazione simile a quella vista negli ultimi anni in Polonia, dove le interruzioni clandestine di gravidanza, spesso rischiosissime per la madre, sono diventate l’unica soluzione per tutte le donne impossibilitate a portare avanti una gestazione per ragioni non riconosciute dallo stato.
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