C’era una volta Immuni. E ancora c’è, a dirla tutta, anche se in pochi sembrano ricordarselo per davvero. Ma se un anno fa, quando esplose la pandemia, il tracciamento dei contatti (“contact tracing“) sembrava una delle priorità assolute per contrastare il Coronavirus, nel frattempo le attenzioni generali si sono spostate su altro. E come sembra lontano quel mese di giugno 2020, in cui dopo il suo lancio il dibattito si spostò anche sull’opportunità di scaricare una app che potesse diffondere i propri dati sensibili (nonostante non li diffondesse, come è stato ampiamente chiarito in seguito). Ma come mai di tracciamento non si parla quasi più? E soprattutto, è giusto? Scopriamolo insieme.
Uno degli ultimi pareri autorevoli sull’utilità del contact tracing, in ordine di tempo, è quello di Andrea Crisanti. Il direttore del laboratorio di microbiologia dell’università di Padova, intervenuto a ‘Salute Focus Ferrara’, ha ricordato la “laboriosità” del processo, ma anche la sua “inefficacia“. E poi ha spiegato perché: “Fa affidamento sulla memoria della persona infetta e, in qualche modo, sulla capacità e la possibilità di collaborare. Molto spesso, però, una persona infetta non ricorda quello che ha fatto nei cinque giorni precedenti. O addirittura può essere reticente e non ci dice chi ha effettivamente incontrato. In altri casi ancora, sta in condizioni tali da non poter proprio rispondere“.
Il dottor Crisanti fa riferimento al contact tracing più “artigianale”: quello che impone ai medici di ricostruire la rete dei contatti di un positivo al Coronavirus tramite telefonate e simili. Esistono però sistemi ben più agili per determinare se si è un contatto stretto di un malato di COVID-19. Sul sito del Ministero della Salute esiste ancora un vademecum per stabilire come capirlo. E qui è necessario tornare a parlare di Immuni, che il Governo continua a suggerire. E il cui flop in Italia non corrisponde a un fallimento altrettanto conclamato in altre nazioni del mondo. Anzi.
Recentemente il Governo britannico ha diramato i numeri della sua app di contact tracing: si parla di 1,7 milioni di notifiche inviate e 600 mila contagi prevenuti. A fronte, però, di oltre 22 milioni di download. La app di Oltremanica ha peraltro un utilizzo simile a quello di Immuni, dato che il framework di Apple e Google è lo stesso. Il suo ampio utilizzo da parte della popolazione (e il numero altissimo di notifiche) ha dimostrato che le app di tracciamento dei contatti funzionano eccome. Ma non da sole. Nel Regno Unito, infatti, ci sono sì stati 1,7 milioni di notifiche ma anche oltre 3,1 milioni di risultati di test inseriti nel database. Basti pensare che 253 tra bar e ristoranti sono risultati come potenziali focolai, grazie a 103 milioni di clienti che hanno deciso di tracciare se stessi tramite app.
I dati comparati sono imbarazzanti. Circa un mese fa, il Ministero della Salute aveva parlato di 87.115 notifiche inviate a Immuni e 10.737 utenti positivi scoperti tramite il contact tracing italiano. La risposta britannica ai 10 mila utenti tracciati è addirittura 800 mila. C’è poi da aggiungere che a gennaio sono emerse alcune anomalie nella app, con problemi nell’avvio e soprattutto con le notifiche. Che in alcuni casi restavano “in coda” e non erano regolarmente consegnate.
Il vero problema, come emerso dagli open data messi a disposizione da Immuni e consultabili sul sito ‘GitHub’, è che da settimane nessuno (o quasi) scarica più la app. Ma ancora meno sono coloro che la attivano. Rendendo il sistema italiano di contact tracing sostanzialmente inutile, almeno da novembre 2020. Ma che il sistema potesse essere non solo utile, ma anche molto importante nel contrasto alla pandemia non lo dicono solo i dati esteri. Ma anche una recente inchiesta pubblicata sulla rivista Nature e un’autorevole ricerca condotta da The Alan Turing Institute e Oxford University.
Nell’autunno 2020 si era parlato anche del New South Wales (il Nuovo Galles del Sud) in Australia, come di “gold standard for COVID-19 management“, ossia il migliore sistema esistente per la gestione dell’emergenza. E ciò permise a Sydney e limitrofi di risparmiarsi lockdown per mesi. Ma quindi, stabilito che in Italia gli errori sul contact tracing non sono mancati (da quelli dei cittadini a quelli dei programmatori), quale può essere la soluzione?
Torniamo al professor Andrea Crisanti: “Sulla base dell’esperienza di Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Taiwan, abbiamo proposto, sulla base di un caso singolo, di testare tutto il perimetro di interazione di una persona. Che dobbiamo immaginarci come uno spazio tridimensionale in cui in un piano c’è la scuola, in un altro gli amici, in un altro i vicini di casa, i colleghi di lavoro, i parenti. Se noi testiamo tutte queste persone, sicuramente là dentro c’è la catena di trasmissione“. Proprio quella che le app di contact tracing erano chiamate a individuare. Cosa che in altri Paesi hanno fatto, ma in Italia no. E la colpa è anche un po’ nostra.
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