Tra i referendum al vaglio della Corte Costituzionale, uno dei più sentiti a livello sociale è quello che riguarda la cannabis. Vediamo dunque perché si parla di quella light (ormai illegale in Italia) e terapeutica, e quali siano le eventuali differenze con quella effettivamente nociva. Facciamo poi il punto sui motivi per cui i promotori hanno abbracciato questa battaglia e come il tema è affrontato nel resto d’Europa.
La cannabis, o canapa, è una pianta angiosperma. In quanto tale è nota all’uomo addirittura dal Neolitico. Il suo utilizzo in ambito tessile è testimoniato addirittura dall’8000 avanti Cristo. Ma anche la scoperta delle sue proprietà psicotrope è antica, e unisce gli Hindu di India e Nepal alla Cina imperiale e popolazioni della Siria, fino addirittura agli Assiri, gli Sciti e i Traci.
Che l’uso terapeutico e anche ricreativo della cannabis non fosse perseguito anticamente lo testimoniano gli scritti di Erodoto (V secolo a.C.) e Plinio il Vecchio (I secolo d.C.). Solo nel 1484 il Papa ne vietò l’uso ai fedeli, ma addirittura nell’Ottocento esplose la moda dell’hashish tra gli artisti. In particolare a Parigi, dove addirittura esisteva un club dove la assumevano i vari Victor Hugo, Alexandre Dumas, Charles Baudelaire, Honoré de Balzac e Théophile Gautier.
Fu a cavallo tra il XIX e il XX secolo che la questione divenne non più medica e farmacologica, ma anche e soprattutto sociale. In Europa arrivò la Cannabis Indica al posto della già nota (e sostanzialmente accettata) Cannabis sativa. Fu Napoleone in persona a volerla, interessato a farne studiare le proprietà di alleviare il dolore e gli effetti sedativi. Ma il proibizionismo vero e proprio sarebbe esploso, guarda caso, negli Usa degli Anni Venti e Trenta. Parallelamente a quello delle sostanze alcooliche, dunque, ma con presupposti diversi.
La canapa, come detto, ha infatti anche svariati usi industriali. Oltre che fibre tessili, con essa è possibile produrre olio, cellulosa, materiali plastici, carta e addirittura vernici e carburanti. Gli studi su questi potenziali utilizzi spaventarono non poco importanti industrie, a partire da quelle chimiche e petrolifere. Partì dunque una feroce campagna mediatica per attribuire all’uso (e non necessariamente abuso) della cannabis variazioni di umore e carattere tali da portare il consumatore a effettuare atroci delitti. Fu in questo periodo che si coniò il nomignolo “Marijuana”, in modo da associare la pianta a quel Messico con cui gli Usa avevano da poco terminato una guerra sul confine tra i due Paesi.
Il tutto diede vita nel 1937 al Marijuana Tax Act. Fortemente voluto dall’alto funzionario Harry Anslinger e firmato dal presidente Franklin Delano Roosevelt, l’atto fu ferocemente contestato già all’epoca della sua emissione. Il primo documento prettamente scientifico a studiare gli effetti della cannabis sull’uomo fu quindi il Rapporto La Guardia, o, in inglese, La Guardia Committee Report. Promosso nel 1938 da Fiorello La Guardia, allora sindaco di New York, vide la luce nel 1944 dopo gli studi di una commissione d’inchiesta formata da medici, professori e ricercatori.
Già all’epoca emerse non solo che il fumo di cannabis “non conduce alla dipendenza, nel senso medico del termine“. Ma arrivò una smentita scientifica alla cosiddetta teoria del passaggio. Ossia quella, mai andata realmente in disuso, secondo cui l’uso di hashish costituisca il naturale crocevia per arrivare a droghe pesanti come cocaina o eroina. In realtà però, come ormai è ampiamente certificato, la vera discriminante è la percentuale di principi attivi, come il THC.
Il Rapporto La Guardia sottolineò come la cannabis potesse addirittura essere usata come farmaco per combattere la dipendenza da alcool o eroina. Uno studio italiano del 1847, invece, stabilì come potesse contrastare l’insorgenza di tetano e colera. Resta il fatto che i danni esistono, ma una Commissione Unita della UE, nel 2001, stabilì che essi derivano dall’uso intensivo. Non ne esisterebbero, invece, in caso di uso occasionale.
Per tutti questi motivi solo in 7 dei 27 Paesi UE (Francia, Svezia, Finlandia, Estonia, Ungheria, Grecia e Cipro), l’utilizzo di cannabis è un crimine passibile di incarcerazione. In altri cinque (Spagna, Portogallo, Lussemburgo, Lettonia e Lituania) è illegale, ma senza che sia previsto il carcere per i trasgressori. Nei restanti 15, Italia inclusa, il consumo non è perseguibile. L’uso personale costituisce nel nostro Paese illecito amministrativo, ma non reato. Che invece avviene in caso di spaccio.
Gli effetti sui consumatori cronici, invece, possono essere decisamente gravi. Si va dai “classici” tosse, nausea, sonnolenza, fame senza controllo, vomito, tachicardia, bronchite, ai rischi di crollo psicotico, disturbi all’umore, all’apprendimento, alla memoria. Ma essi riguardano come detto l’uso smodato e fuori controllo della cannabis. Che invece, in quantità controllate e soprattutto sancite per legge, non arreca danni al corpo umano. E può addirittura aiutare a contrastare diversi problemi di salute.
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