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Proprio mentre in Italia la Campania si “ritrae” chiudendo le scuole e la Lombardia si avvia a inaugurare un coprifuoco “notturno”, sbarrando i centri commerciali nel weekend, c’è chi dall’altra parte del mondo riscopre una libertà divenuta quasi inedita dopo lunghi mesi di reclusione forzata. E’ il caso di Melbourne e, più in generale, dell’intero Stato del Victoria. Da lunedì, infatti, i cittadini della grande regione dell’Australia meridionale, dopo un lungo lockdown, hanno potuto reimpossessarsi di una propria quotidianità esterna alle mura di casa seppur in un raggio di non oltre 25 chilometri.
Prima di oggi, praticamente sette mesi di lockdown in Australia
“Siamo entrati, un po’ come tutti, in lockdown a marzo – racconta Silvia, 32enne milanese da diversi anni “Downunder” tanto da possedere la doppia cittadinanza – salvo interromperlo a giugno e rientrarci tre settimane più tardi. Qui funziona un po’ come negli U.S.A., ogni Stato è un organismo politico e legislativo quasi indipendente: l’errore più grande è stato impiegare personale privato, assunto “spot” e non sufficientemente formato, nel prendersi cura delle persone in quarantena, causando un outbreak che non si è vissuto negli altri stati dell’Australia”.
È questo, secondo Silvia, ad aver causato una nuova escalation di casi che ha indotto il governo del Victoria, presieduto dal laburista Daniel Andrews, a riobbligare tutti a casa, con provvedimenti di stampo economico che la nostra connazionale giudica quantomeno discutibili: “Qui il governo ha pensato di elargire la stessa somma a tutti i cittadini: c’è chi, come me, ha ottenuto un contributo pari al 50% dello stipendio e chi, invece, magari ha percepito più del solito. Inoltre, per i liberi professionisti e titolari di attività commerciali è stato un vero dramma: si calcola – racconta Silvia – che chiuderà circa il 40% delle piccole imprese impegnate nel settore della ristorazione”.
Un impatto che lei ha già vissuto nel suo piccolo. “Lavoro per una grande azienda con all’interno, per fortuna, molte aree di business, seguendone la parte dedicata agli eventi in ambito nazionale e internazionale: il mio team era composto da nove persone, siamo rimasti in tre”.
La paura di tornare alla normalità
Detto che la nuova libertà nel Victoria fa rima con 25 chilometri di autonomia prima di incappare nelle restrizioni governative, Silvia non nasconde un certo timore nel riaffacciarsi alla socialità di una Melbourne che non è la stessa città che aveva lasciato a marzo: “Ci eravamo quasi abituati a restare chiusi in casa o a muoverci solo per necessità: dopo i primi tempi, siamo entrati in una sorta di bolla sociale. Ora, riaffrontare le altre persone, imbattersi nei riscontri degli altri, poterli frequentare di nuovo, non nascondo porti con sé un sentimento di paura difficile da descrivere. Gli esperti – prosegue – dicono che ci vorranno circa sette anni per ricostruire la città dal punto di vista economico, con lo stesso grado di benessere e vivacità che ora abbiamo perso”.
Il ritorno a casa impossibile
Una buona notizia, quella del termine del lockdown, che si imbatte, tuttavia, nelle restrizioni che permangono per i viaggi da e per l’estero, argomento che riguarda da vicino Silvia e tutti i nostri concittadini al momento in Australia. “Lo Stato centrale – rivela la milanese con comprensibile amarezza – ha impedito le partenze verso l’estero sin dall’inizio del lockdown, a meno di motivazioni gravi e comprovate. Io stessa ho tentato di ottenere il permesso a partire spiegando di essere in apprensione per la situazione della mia famiglia, ma mi è stato negato entrambe le volte. Inoltre, i fortunati che possono partire, al ritorno devono obbligatoriamente sottoporsi al regime di quarantena in hotel, a loro spese: si parla di circa 3mila dollari”.
Le notizie che circolano vedono l’Australia voler proseguire con questo stop alle partenze, ma Silvia intravvede un po’ di speranza: “La situazione sanitaria ora è sotto controllo, proseguire con queste imposizioni lede i diritti civili di noi cittadini”. La speranza è che Silvia possa presto prendere quell’aereo verso casa e che l’Italia possa riaccoglierla senza rischi e pericoli. Quella sì, sarebbe normalità, non più a 25 chilometri ma a circa 20 mila.