“Noi non siamo né avvocati, né specialisti dei diritti dei lavoratori. Ci limitiamo a dire che quello che vediamo non ci piace“. Inizia così il post pubblicato sull’account Instagram disordine_degli_architetti, entrato in possesso di un elenco di regole interne di un importante studio di Milano. E che denuncia le condizioni che i dipendenti dell’ufficio devono rispettare.
Oltre alla severità ed estrema precisione del vademecum (integralmente scritto in inglese), colpiscono i toni estremamente categorici di alcune delle regole che gli architetti sono chiamati a rispettare. A partire dal fin troppo chiaro “La pausa pranzo è dalle 13 alle 14. Non dalle 13:05 alle 14:05“. Molto pesante la gestione anche delle pause mattutine e pomeridiane. Che iniziano, rispettivamente, alle 11 e alle 17. Che durano “dieci minuti, ciascuna“. E che rappresentano gli unici momenti in cui tenere i contatti con la propria vita extralavorativa.
“Gli smartphone personali – si legge nelle regole per gli architetti – devono essere costantemente spenti in orario di lavoro. Puoi controllare o attivare il tuo cellulare solo in pausa pranzo e durante le pause“. In cui però si devono concentrare anche altre esigenze. “Sigarette e caffè non sono permessi al di fuori delle pause“, si legge in un altro stralcio.
Ovviamente in pausa pranzo bisogna pulire perfettamente la cucina aziendale e svuotare il frigorifero (“Evita cibo dall’odore forte“, si specifica). E sul lavoro, gli architetti devono essere rigorosissimi. Sempre. “Usa internet solamente per le e-mail dell’ufficio e motivi di ricerca. Sii veloce“, è una delle regole. Ovviamente “l’uso di internet a fini personali è severamente proibito“. Ma in più “chiacchierare in orario di lavoro non è accettato” e bisogna “evitare sempre di disturbare i colleghi con domande o parole“. In caso di dubbi, “ridurre le domande al minimo indispensabile“.
La diffusione di questo documento ha scatenato un piccolo ma crescente subbuglio, nel mondo degli architetti e non solo. “Non approviamo questa lista di regole/compiti dati con una coscienza che appartiene forse all’inizio del XX [secolo, ndr] e ci chiediamo come sia possibile che a studi del genere vengano date commissioni di questa portata in un Paese come l’Italia dove dovrebbe contare il prodotto, ma anche come il prodotto è stato fatto. A voi sembra eticamente corretto?“, si legge nel post. Che ha scoperchiato una realtà forse sommersa, ma fin troppo nota a chi ha operato una scelta professionale verso il mondo dell’architettura. E l’hashtag finale (#slavery, ossia schiavitù) riassume la situazione forse nel migliore dei modi.
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